CASTELLO NORMANNO SVEVO DI COSENZA
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La Torre, la Rossa, il Libro
Gli piaceva camminare. Lo percepiva come un qualcosa di naturale, una delle poche cose che erano rimaste nella sua vita non aristotelica. Ogni passo era come un respiro. Il piede destro, e poi il sinistro. Inspirare. Espirare. E poi di nuovo. Li soppesava, sia i passi che i respiri. Ognuno era un dono, ognuno una maledizione. Il dolore gli era ormai sconosciuto, ma la fatica no. Quella la poteva ancora provare. La cercava, come se fosse una prova che in fondo, era una creatura reale e non solo un castigo divino che errava, senza pace, per il mondo. Salì il pendio senza fretta, stancandosi, per la gioia di essere stanco per scelta, puntando gli occhi, fissi, sui piedi. Quando arrivò al castello fu preso dalla nostalgia. Come era stato glorioso e disperato di umanità quel luogo, vivo e vitale. Oggi brillava di uno splendore diverso, di ciò che era stato e non è più. Un monito. Panta rei diceva quel vecchietto austero. Panta rei, tutto scorre, tutto cambia. Lei… la percepì subito. I suoi occhi, che avevano visto il mondo, i mondi tra i mondi, e anche quelli perduti per sempre da questo piano della realtà, bruciarono percependo il rosso del suo vestito, ai confini del proprio campo visivo. Ardeva in contrasto, il vermiglio sul colore del tufo lavorato che gli ricorda le dune del deserto dopo le tempeste di sabbia. La donna indugiava sul parapetto della torre ottagonale, guardando verso il basso. Anche i capelli erano rossi, ma più chiari del vestito. Arancioni. Un brivido. Era appena successo qualcosa che gli capitava sempre più raramente. L’ultima volta che si era imbattuto in qualcosa di simile fu dieci anni prima. Le chiamavano “novità”, ma per lui raramente lo erano. Tutto già visto, tutto già fatto. Quando sei eterno da così tanto tempo, tra le tue tante condanne c’è anche la noia e l’impossibilità allo stupore dettato dal nuovo. Nulla è davvero diverso da ciò che è già potuto essere. E che è stato. Che addirittura potesse esistere un colore di capelli, una sfumatura, che lui non avesse ancora mai visto lo turbò, di possibile gioia, profondamente. Non gli interessava perché la donna baluginava al suo sguardo avanti e indietro, con fare ondulatorio. Non gli interessava cosa facesse sulla torre ottagonale del Castello Svevo di Cosenza, cosa l’avesse portata lì, se volesse buttarsi giù o meno, o se stesse giocando al pericolo con qualcuno. Gli interessava solo vedere, da vicino, quei capelli. L’uomo che era stato un uomo ma che non lo era più, maledetto e benedetto da Dio con l’eternità, allungò il passo ed entrò nella struttura con un’urgenza sconosciuta da tempo. Salì le scale con curiosità e si rallegrò di questa vitalità che non gli apparteneva... più. Quando arrivò nello spazio ottagonale, ricordando vagamente che forse in passato c’era un secondo piano di questa struttura, cercò subito la donna dove l’aveva fotografata la sua infinita memoria qualche istante prima, dal basso. Lì dove era non era più. Rannicchiata, con le gambe incrociate, custodiva sul ventre un libro di minuta foliazione. Le sue dita lo arpionavano, come se fosse la propria ancora di realtà. Lei si dolse dell’altrui presenza con ritardo, scocciata che qualcuno potesse interrompere il suo rapporto platonicamente carnale con la lettura. Il viso della rossa, non più ragazza, non ancora donna, era infranto di lentiggini. Non punti, ma piccole strisce di pochi millimetri, come se qualcuno avesse usato la faccia per raschiare vernice da una parete butterata di granuli di cemento e tale operazione avesse generato ferite trasformate in cicatrici colorate prive di profondità. Era bellissima. Non solo il colore dei suoi capelli, certamente naturali, era inedito, ma anche il viso era di una qualità di beltà che mai l’Errante aveva incontrato prima.
- Mi scusi – proferì l’eterno – Mi scusi, non voglio sembrarle ciò che non sono. Ma sono rimasto colpito dalla sua… dai suoi… colori. Dove è nata? Quanti anni ha? Di che nazionalità è? Perché non ho mai visto qualcosa di simile a lei…
- E il numero di carta di credito non lo vuoi, nonno? – Replicò tagliente la più o meno rossa.
- In che senso?
- Nel senso che, anche se non mi avessero insegnato a non parlare con gli sconosciuti, non mi sembrano le domande opportune che un uomo della sua età dovrebbe porre ad una ragazza della mia età, da sola, su una torre, in un castello. Non crede?
-…si. Si. Ha ragione. Mi scuso. Mi scusi. Ma vede, io… Non è come crede, non pensi male. Non sto… Non voglio niente, se non sapere…
- Va bene, tanto sarà solo per l’ennesima volta. Mio padre è biondo cenere, con gli occhi azzurri, mia madre è scura come la brughiera in una notte d’inverno, con gli occhi nocciola. Nonni e nonne uguali ai genitori, ognuno per il suo conto. No, non ci sono dubbi sulla paternità, né scambi di culla. Come lo sappiamo? Per un motivo semplice. Non c’era nessuno che potesse mettere incita mia madre tranne mio padre e non c’era nessun altro bambino con cui scambiarmi. Sono nata in Antartide, in una base di ricerca della Nato che studia il ghiaccio. Una cosa tipo il senso di Smilla per la neve. Ha presente? Nella base, c’erano solo mio padre e mia madre, che si sono innamorati dopo un anno da quando si sono visti per la prima volta, nella mensa della base. Dopo un altro anno sono nata io. Mi ha fatto nascere mio padre. L’ostetrica, bloccata dalle tempeste di neve, è arrivata 5 giorni dopo e mi ha trovato che giocavo con le provette. Avevo questi colori appena nata. Abbiamo fatto diversi test per capire il perché. Antichi geni, dicono. Una su un milione di milioni, dicono. Il risultato è che nelle foto di famiglia sembriamo un film Disney. Tipo Ribelle incontra Frozen che incontra Pocahontas. Si, lo so, dovrei fare la modella. No, non mi interessa fare la modella. Si lo so, sono bellissima. Così bella che nessuna ci prova, se non da ubriaco e anche lì… con il rosso ci si ferma, con la Rossa pure. Sa quante persone mi bloccano per strada per chiedermi quello che non è riuscito a chiedermi lei? Un numero sufficiente da spingermi a salire sulla torre più alta del castello più alto che ho a portata di mano, per leggere un libro in santa pace. Sa, i libri sono i più democratici degli oggetti. Non gli frega nulla di che colore sei, si fanno leggere lo stesso. E per fortuna sono riuscita a finire questo prima che l’ennesimo inopportuno essere umano qualsiasi dai capelli da essere umano qualsiasi mi interrompesse. Detto ciò, ho fatto il mio spettacolo anche oggi, perciò… inchino, applausi, sipario, luci. E ciao. Me ne vado. Questo glielo regalo, magari le piacerà leggerlo…
“Essere umano qualsiasi non me lo sentivo dire da molto tempo”, pensò l’essere che non era più solo un uomo, mentre il transatlantico di parole e vita della Rossa lo investiva.
- Mi perdoni… posso chiederle un’ultima cosa…Il suo nome…
- Siamo su una torre, mi sporgevo sul parapetto con il rischio di spargermi sul terreno, hoi capelli di questi colori, e i miei sono appassionati di Alfred Hitchcock. Come vuole che mi possa chiamare?
Madeleine sbuffò facendo sobbalzare un ciuffo lungo che ricadde subito al suo posto. Poi si alzò, sbatté il libro che aveva custodito tra le mani di un uomo che non era più un uomo ma che comunque era rimasto senza parole, e se ne andò, scendendo le scale con la stessa grazia con cui una scopa incantata porta due secchi d’acqua lungo una gradinata di pietra. E in una nuvola di indeterminazione, come un personaggio minore di cui non sapremo ma più nulla, sparì.
Il vecchio, che vecchio era nella stessa misura in cui era e non era uomo, posò lo sguardo sul libro che la ragazza gli aveva regalato, cercando in copertina il titolo.
“Rosso Malpelo”.
Rise. Rise molto. Rise così a lungo che gli sembrò un’eternità… un’altra eternità. Un’eternità diversa.
Andrea Mazzotta
Ottobre, 2023